Ognuno di noi, fin dalla più tenera età, si è trovato a dover affrontare e gestire la fine di un rapporto. Il cambiamento fa parte della vita, nulla è immutabile e non sarebbe affatto un bene se così non fosse: ci troveremmo a tracciare un percorso già segnato, la speranza, il coraggio e i sogni non avrebbero ragione di esistere. Questo argomento tocca anche me e ho voluto dare voce ad alcune riflessioni in merito, non come psicologa, visto che non lo sono, ma da donna e da scrittrice. L’ispirazione mi è venuta da un passaggio che sto affrontando nella stesura del mio nuovo romanzo, un erotico in cui, come mio solito, l’erotismo non è mai fine a se stesso, ma solo funzionale alla storia, un punto di vista diverso, nient’altro.

Quando si parla di rapporto si fa riferimento in maniera generica a qualunque tipo di legame e relazione sia intercorsa tra due o più individui, ma il problema di gestire il passaggio e andare al di là dello stesso riguarda per lo più il rapporto intercorrente tra due persone e che quindi, una volta spezzato, fa sì che ognuno debba tornare a fare i conti solo con la propria individualità, cosa che, peraltro, non dovrebbe mai venire meno. Quale che sia la natura del legame (affettivo, matrimoniale, lavorativo, ecc.), possiamo rappresentarlo simbolicamente con un filo che, più o meno a lungo, ha tenuto vicine due persone, le ha fatte sentire legate. Ma quel filo può accadere che si spezzi o che venga tagliato da una delle due parti ed è lì che iniziano i problemi.

Nello spazio condiviso del rapporto si è creato un mondo comune, costituito da beni materiali e/o immateriali; c’è stato un investimento di risorse che possono essere fisiche, ma soprattutto emotive: fiducia, aspettativa, affetto, solo per citarne alcune. Nel momento in cui la comunione si rompe, a seconda del nostro equilibrio e delle nostre capacità di gestione del passaggio, rischiamo di sentirci defraudati di tutto questo.

Ph. Jaya Suberg

Ph. Jaya Suberg

Per cui, da una parte abbiamo chi, privato di quello che riteneva di fatto e di diritto un muro portante della propria casa, in senso metaforico, vive il cambiamento con un senso di auto-svalutazione. Costui o costei si abbatte, si lascia andare alla disperazione, pensa di non valere abbastanza o di non aver dato abbastanza e il rischio è che si possa arrivare persino alla depressione o alla sfiducia cronica in sé e negli altri.

Dall’altra abbiamo invece chi vive la situazione con un senso di ingiustizia, pretendendo indietro anche con gli interessi quanto gli è stato portato via, a suo giudizio. Ogni vendetta è ammessa, nessun colpo è troppo basso, la rabbia prevale sulla logica e, in casi estremi, il bisogno di rivalsa e ristoro del danno può arrivare anche a sfociare in episodi che, ahimè, leggiamo ogni giorno sui giornali o ascoltiamo nei tg.

In entrambi i casi c’è qualcosa che non va. Un comportamento auto-distruttivo, vittimistico nella prima situazione, complice la mancanza di autostima. Violento, possessivo, narcisistico nella seconda e ugualmente povero di reale autostima.

Infantili, tutti e due. Personalità carenti di quegli strumenti che ognuno di noi ha (o dovrebbe avere) a propria disposizione fin dall’infanzia quando, attraverso i primi esperimenti di interazione con il mondo, per tentativi ed errori, reiterando e modificando il comportamento, sostenuti, corretti ed educati dalle figure di accudimento principali, il bambino elabora e introietta gli schemi che poi gli saranno funzionali (o disfunzionali) in ogni ambito della propria vita da adulto. In questa fase, che si ha in un momento molto precoce dello sviluppo del bambino, egli non farà altro che scartare gli schemi errati e ripetere quelli giusti, dove errato viene ritenuto lo schema che non soddisfa al momento il suo bisogno, giusto sarà lo schema che gli permette di ottenere ciò che desidera. E gli schemi che riterrà giusti saranno quelli che faranno da trama, da struttura portante, a ogni relazione futura.

Ecco che, nei due esempi molto semplicistici riportati sopra, non assistiamo a un comportamento maturo e responsabile, quale dovrebbe essere quello di una personalità adulta. Abbiamo invece un comportamento che richiama quello del bambino che sta ancora cercando di capire come relazionarsi con il mondo, imparando a temperare l’esigenza pulsionale del soddisfacimento dei propri bisogni, a procrastinare, gestendo la frustrazione. I rapporti con gli altri saranno il fulcro di tutta la sua vita da adulto, adottare e introiettare schemi disfunzionali lo porterà di certo alla sofferenza.

Questa è la teoria. Nella pratica si verifica che nessuno o quasi nessuno di noi riesce ad avere da parte delle figure di accudimento dell’infanzia il sostegno consapevole necessario per essere perfettamente funzionali. Ma se nel bambino il margine di tolleranza è molto ampio, perché sta imparando, nell’adulto non può esserlo e, difatti, non lo è.

Comportarsi da bimbi capricciosi, vendicativi, frustrati o piagnucoloni, atteggiarsi a vittime o a carnefici, porta solo alla luce le proprie mancanze, non quelle degli altri, rei di aver solo preso la decisione che ritenevano più giusta per loro stessi, dimostrandosi dotati di sufficiente autostima. Questi ultimi, nel breve o nel lungo termine, finiranno sempre per spezzare un legame disfunzionale e per allontanarsi, guidati da un equilibrio emotivo che permette e permetterà sempre loro di tessere rapporti con gli altri, di alimentarli, ma anche di porvi fine o di accettarne la fine, senza che tale fine e la presunta scorrettezza dell’altro/a diventino il centro di pensieri e comportamenti. L’autostima riguarda se stessi e il proprio mondo interiore, non c’è spazio per nulla che abbia a che fare con l’esterno anche se, come conseguenza, gli effetti della stessa saranno proiettati sui rapporti con il mondo.

Il lutto, conseguente non solo alla morte fisica, ma a tutto ciò che simbolicamente muore dentro di noi, potrà essere gestito per ciò che è, in maniera matura e consapevole, solo grazie all’equilibrio emotivo e all’autostima. Se stiamo vivendo la fine di un qualunque tipo di rapporto, ogni volta che ciò non avviene, ogni volta che dall’altra parte siamo tirati per le maniche da adulti vestiti da bambini che si comportano da vittime o che fanno di noi ancora il bersaglio delle proprie frustrazioni, spesso anche a distanza di tempo, sappiamo per certo che si sta cercando di intrappolarci in un meccanismo perverso.

Dobbiamo riuscire a staccarcene il più velocemente possibile e la consapevolezza di ciò che è alla base di tali comportamenti distorti ci aiuta a farlo nel giusto tempo, elaborando e crescendo. Se siamo consapevoli, maturi, funzionali, allora useremo il lutto per prendere le distanze, per tagliare ciò che va tagliato, per far morire ciò che deve morire, usando una espressione di Clarissa Pinkola Estés¹.

Ecco che, agli occhi di molti, il nostro modo di affrontare e superare la fine di un rapporto sembrerà tipico di una persona egoista e priva di sensibilità. In realtà è quanto di più prezioso abbiamo, da costruire e conservare e si esprime con tre parole: AMORE DI SÈ.

Con il cuore, sempre. 

 

¹Clarissa Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi